Amo viaggiare, adoro conoscere il pianeta su cui devo nel bene o nel male soggiornare; è come abitare in una casa e non sapere cosa contengono le altre stanze. Ma tra tutti i luoghi del mondo esiste un Paese che da sempre mi ha stregato, gli States. Perchè questa attrazione quasi maniacale? Una domanda che mi sono posto tante volte, soprattutto se la sono fatta in tanti. Ogni anno infatti si gettano le basi per viaggiare in qualche parte del pianeta, si va pazientemente in agenzia, si raccolgono minuziosamente quintali di cataloghi patinati e invitanti che promettono relax, divertimento e sole. E così si resta in fila in agenzia viaggi, il più delle volte in piedi contro un pannello che raffigura una bella ragazza in bikini e ogni volta l'occhio cade su quello spicchio di pagina, quasi sempre nascosta da altre riviste sopra impilate, che fa intravedere la Monument Valley o l'Empire State Building. E come sempre il cuore ricomincia a battere, come fosse stato in letargo da mesi; di colpo comincio a pensare "ma perché no?". Poi la logica mi spinge a capire che il mondo è grande, vario e pieno di altri luoghi da visitare. Ma nulla, dentro di me si è (ri)accesa quella lucina, quel led rosso settato su "warning" che inconsapevolmente so già a cosa condurrà. Silenziosamente mi siedo assieme alla mia dolce metà al tavolo del tour operator, mentre gentilmente illustra svariate mete.
Ma ormai ho già deciso e solo l'educazione di lasciarla parlare mi frenano dall'alzarmi e andare a casa a tracciare le "rotte di una nuova avventura". In testa comincio a stilare mete su mete, poi le cancello e si riparte con altre tappe come un terminale che si è inceppato e ripete all'infinito la stessa operazione. Il problema ora sta nel convincere la mia fedele compagna di ventura nel seguirmi nell'ennesima missione e puntuale come un orologio svizzero mi stampa un "no" a lettere cubitali nelle orecchie, senza sapere che proprio lei ogni volta non vorrebbe più ritornare a casa. "Se tu solo sapessi", questa è la sola frase che le riesco a sillabare. Ma so che tra poco cederà, perché gli States li ha già visti innumerevoli volte e sa quanto siano grandi e piccoli allo stesso tempo, di quanto ti lascino dentro un qualche cosa di indelebile, di quanto rendano vivi. Per me sono come una seconda casa, al punto che sbarcando in un aeroporto a stelle e strisce e alzando gli occhi agli aerei in partenza avrei voglia di ritornare in tutti i luoghi che ho già visitato, per vedere se è tutto come prima, se tutto è intatto. Inizio allora a consultare libri, a comprare guide sempre aggiornate, a consumare la rete alla ricerca di tutto e di nulla. Tanto il bello è che so che ci andrò, tutto il resto non mi interessa più.
Nel frattempo i giorni cominciano a trascorrere sempre più veloci e come un inesorabile conto alla rovescia la tensione sale. Comincio a riprendere in mano i vecchi libri di inglese, giusto per arrivare non del tutto arrugginito all'incontro. Un viaggio negli States è come un appuntamento con una splendida donna, non si può andare mai a mani vuote. E finalmente giunge il giorno della partenza, ricontrollo mille volte il bagaglio e mi metto in moto verso l'aeroporto. Ogni volta si è obbligati ad alzarsi ad orari assurdi per prendere quel volo, che oscilla sempre tra le 6 e le 7 del mattino. Ma quel giorno la stanchezza non esiste, ormai assomiglio di più ad un atleta che si prepara da tempo alla gara. Quando suona la sveglia la prima cosa che penso aprendo gli occhi è che finalmente si parte. Anche se ho dormito solo poche ore, gli occhi si aprono senza indugi, il sonno svanisce istantaneamente e dentro cominciano a scorrermi tutte quelle immagini che ho visto nelle ore di lettura delle guide e in rete.
E via, verso l'aeroporto. Il volo è un lento avvicinarsi all'obiettivo e già quando si sale e mi regalano il Wall Street Journal capisco che il sogno sta per (ri)avverarsi. Dopo circa sei ore di viaggio dagli oblò si cominciano a scorgere le scure terre del Canada e mi rendo conto che sono già in America; quando a mezz'ora dall'arrivo mi fanno compilare il fatidico modulo d'ingresso il cuore comincia a subire i primi contraccolpi. Ma il momento più bello è quando, atterrati, esco dall'aereo e imbocco il tunnel dell'aeroporto; di colpo capisco di ritrovarmi in un altro mondo. Mi affretto allora verso il ritiro del bagaglio e al tradizionale controllo severissimo del passaporto. Lì la tensione sale a mille, ho sempre il terrore che qualcosa non sia a posto. E' un po' come per un bambino che sa che sulla mensola c'è una bella torta, ma non può arrivarci e allora la guarda con la lacrima all'occhio. Una volta che il doganiere di turno, quasi sempre arcigno e imperturbabile, mi appone il timbro sul passaporto il cuore ricomincia ad avere una cadenza umana. A quel punto solo una porta mi separa dall'avventura americana, quella porta che solitamente è inondata dalla luce irreale dell'esterno sembra sempre così lontana. Sarà per le dimensioni enormi di tutto ciò che esiste in America e sarà perché attendo quel momento da mesi. Sento il battito salirmi in gola, stringo forte il carrello con i bagagli e le porte magicamente si aprono.
Improvvisamente trattengo il respiro, chiudo gli occhi e un flash con tutte le immagini dell'America che ho visto in televisione, sui giornali e nei miei sogni mi trafiggono la mente. Ma la voglia di cominciare è troppa. Allora apro lentamente gli occhi e di colpo metto a fuoco il mio sogno che ora sogno non è più. Mi metto gli occhiali da sole, chiudo la cerniera della felpa e mi lascio travolgere dal tutto e nulla dell'America. Finalmente a casa.
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giotto |
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